Life goes on.
(Per tutte le volte che in questi quattro anni mi è capitato, comunque, di pensare “Questa cosa la devo raccontare a papà, ora lo chiamo e glielo dico”).
Matteo è diventato juventino. Ha regalato il suo vecchio astuccio interista ai “bambini poveri” (anche se non vuole restituirmi lo zaino, perché quello è bello) e va allo stadio quasi più spesso di quanto non facessi tu. Lo so. Lo so… Immagino la faccia che stai facendo. Senza sforzo immagino anche la battuta che l’accompagna, quella faccia. E se chiudo gli occhi, posso sentire -perfettamente scandita nella risata- anche la voce che dice quella battuta che accompagna quella faccia. Il contenuto non posso scriverlo qui, però. La mamma pensa che io stia diventando volgare e la scusa che “ho patrizzato” non mi salva più… E’ cresciuto tanto, Matteo. Lui forse ti direbbe, come ha detto a me qualche settimana fa, che è già un “adolescente” (ché i bambini oggi pare entrino nell’adolescenza a dieci anni) e che sa molte più cose di quante noi non immaginiamo (usa congiuntivi perfetti e ha una dialettica argomentativa, ostinata e immaginativa che metterebbe in difficoltà un polemico, prima di fiaccarlo, inesorabilmente sconfitto, in una risata). E’ molto intelligente e altrettanto vivace. E ha molta fantasia. E’ uno di quei bambini speciali che li guardi e ci credi che, un giorno, lo potranno cambiare davvero questo mondo. Anche se dice che la scuola è «la cosa peggiore che mi potesse capitare» e ogni tanto ci divertiamo a contare gli anni che ancora gli mancano a finirla (una volta abbiamo avuto un’interessante conversazione attorno al tema che l’università non è “obbligatoria” ma “auspicabile”) è molto bravo. Gioca a pallacanestro (con la maglia numero 77), gli piace la musica rap (cosa che gli è valsa un ottimo voto per una poesia scritta in rima baciata sulla primavera) e impazzisce per le sneakers (che poi sono delle scarpe da tennis molto colorate e altrettanto stellate). Ti nomina spesso, sempre felice. L’altro giorno ha detto alla mamma che «eri un grande». Si ricorda della moto, del mare, della tortura cinese, del polipo pungiglione e di tutto il resto e, da quando sei andato via, tutte le volte che va a trovare la nonna a casa sua, dorme nel tuo letto (l’ha voluto lui).
Giovanni ha compiuto due anni, ha imparato a dire “merda” e va dicendo in giro che gliel’ho insegnato io. O, meglio, che gliel’ha insegnato “mona”. Sì, perché lui mi chiama così, omettendo quella sillaba sibilante che, in mille altre circostanze di felice esternazione assertiva sa pronunciare perfettamente.
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